“Pale Green Ghosts” di John Grant
E pensare che il mio avvicinamento a John Grant fu del tutto casuale. Band: Piano Magic, album Disaffected (2005), brano : Your Ghost, una voce meravigliosa si impossessa del microfono, non si tratta di Glen Johnson ma di uno special guest : John Grant leader degli Czars. Approfondisco immediatamente e rimango piacevolmente impressionato dall’eleganza formale del pop multiforme della band americana, ma è la voce del protagonista a conquistare definitivamente. Poi l’esordio solista con Queen of Denmark (2010), vorrei gioire insieme a tutti quelli (sono tanti) che gridano al capolavoro, incredibilmente non ci riesco.
A distanza di tre anni il ritorno in pista genera quell’acceso interesse che meritano personaggi del suo spessore. Il nuovo disco si mormora sia una sorta di Grant-goes-electro, personalmente sento di aver ormai esaurito il mio interesse verso il nostro, lo squallore della pessima copertina poi non invita certo all’ascolto gli indecisi. Don’t judge a book by its cover recitava un vecchio e profetico adagio, difatti durante un viaggio a Londra mi lascio sedurre dalla martellante cartellonistica metropolitana e dalla gigantografia di un Grant dallo sguardo severo che svetta altissima sopra la scritta “disco del mese” nel negozio Rough Trade East. Compro il disco a scatola chiusa, come si faceva una volta.
Dissipiamo subito ogni dubbio, questa lunga premessa non è il prologo di un capolavoro, Pale Green Ghosts molto semplicemente, ci restituisce il Grant condottiero di razza che abbiamo sempre conosciuto, con la spiccata capacità di condensare differenti influssi sonori. La svolta electro che caratterizza senz’ombra di dubbio il lavoro – e come sempre in questi casi fa storcere il naso ai puristi di non-si-sa-bene-cosa – è un’esigenza espressiva che da tempo covava nell’animo del protagonista, giovine frequentatore di club synth wave sul finire degli eighties. Il ragazzo che amava tanto Pixies e Throwing Muses quanto New Order, Ultravox! e Depeche Mode.
La spinta iniziale della titletrack è di una bellezza conturbante: i fantasmi verde chiaro, i soldati che vegliano l’oscuro sentiero descritti nel testo, sono le immagini che il protagonista cattura sulla strada che è solito fare per recarsi nei club della capitale del Colorado. La I-25 Denver – Boulder si trasforma in una Autobahn di teutonica memoria tra glaciali tessiture sonore e synth dalla funzione percussiva ripetitiva e costante, la stessa atmosfera che si respira nella ricercatezza esteriore di You Don’t Have To, validissimo compendio di forma-canzone Grantiana e retro electronica. Non è solo John Grant al comando delle macchine, con lui nello studio Oroom di Reykjavik c’è Biggi Veira dei Gus Gus e vari musicisti locali, mentre il backing vocals dell’intero disco è opera di un’ugola capace di fare la differenza : Sinead O’Connor, vero valore aggiunto in tracce quali Why Don’t You Love Me Anymore, pura delizia sopraffina. Non mancano ballate dagli arrangiamenti canonici, vedasi a tal proposito Vietnam, una delle due tracce (l’altra è It Doesn’t Matter To Him) dove torna a fare capolino la sezione ritmica del disco precedente (McKenzie – Alexander dei Midlake), o GMF: il secondo singolo in heavy rotation, un midtempo estatico che custodisce tutto l’ingegno dell’outsider di gran lusso.
Le liriche, corrosive e beffarde allo stesso tempo, continuano a raccontarci storie di depressione e riscossa, evasione, omosessualità e omofobia, fino alla tagliente rivelazione della sua positività all’HIV nella futuribile Ernest Borgnine. Per la traccia conclusiva Grant denuda l’altare: Glacier, per piano e archi, non è più solo musica e parole, ma qualcosa di molto vicino alla poesia dai toni cupi. L’ideale epilogo di un lavoro che assesta il colpo nel punto voluto e conferma John Grant, ebbene sì, come uno dei più acuti songwriter del nostro tempo. (Paolo Pontini)