Ray Lamontagne – Supernova (RCA Records, 2014)
Ray Lamontagne ha pubblicato un nuovo disco. Supernova, questo il titolo dell’album. E’ il suo quinto lavoro e, prima ancora di ascoltarlo, ho sperato di poter godere di un disco dotato di carattere. Purtroppo fin dal primo passaggio, questa mattina alle 7 – vuoi per la mia naturale diffidenza del post-risveglio vuoi per la banalità di molti brani che si avvicendavano alle mie orecchie – ho dovuto, invece, prendere atto che in Supernova di “carattere” non ci fosse traccia ne tracce.
Il suo primo album, Trouble - del 2004, si inseriva perfettamente in quel nuovo filone stilistico meglio conosciuto come new-folk o indie-folk: a dire il vero Ray è stato tra i primi esponenti del medesimo. Ricordo che scoprii prima lui, poi quel buontempone di Sam Bean (aka Iron&Wine) quindi Great Lake Swimmers, Sufjan Stevens, The Tallest Man on the Earth, Band of Horses e tanti altri new-hipsters barbuti, con le camice a quadri e le chitarre acustiche. Potevano essere più legati alla scuola del songwriting “one- man band” (vedi Iron&Wine o lo stesso Ray Lamontangne, ascoltate qui che bravo) o piu’ inclini all’”indie-rock” (vedi band come i Fleet Foxes), ma in entrambi i casi rappresentavano un “break”, una rottura o, se preferiamo, una risposta a stelle e strisce al post-rock britannico e alla nuova ondata new-wave – concedetemi la ripetizione – americana che scimmiottava (e continua a farlo, Interpol, Editors, The Killers, The National, etc.) la musica british a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Mi rendo conto di aver utilizzato più volte l’aggettivo “nuovo”, “new” ma, a guardar bene le cose, di nuovo, di novità e di originalità non è che ce ne siano molte. Sui primi album – dopo Trouble ancora un bel prodotto, “Till the sun turns black” del 2006 – tutto sommato ben fatti, suonati bene, composti con il giusto estro e arrangiati con particolare gusto non possiamo aver nulla da ridire. Supernova, del 2014, però non glielo si può far passare.
Il nostro eroe barbuto (non lo è, nostro eroe, ma mi sembra un buon incipit per stroncarlo senza pietà) dopo 10 anni di attività discografica e notorietà mondiale, pensa, compone, suona e registra un disco che è un’accozzaglia di melodie, riff e sonorità sentite per la prima volta tra gli anni ’60 e ’70.
Ascoltando Supernova sembra di ascoltare le (brutte) copie di brani dei Jefferson Airplane, dei Beach Boys, di Janis Joplin, di Van Morrison, dei Velvet Underground, degli Zeppelin e dei Beatles, quelli psichedelici. Il resto, intendo dire quei brani che non ricordano qualcosa di già stramaledettamente sentito, sono solo canzonette. Come cantava Bennato.
Cito da un bellissimo libro sul fenomeno dell’hipsterismo - libro che consiglio vivamente di leggere, scritto da Tiziano Bonini e disponibile per pochi euro qui - un’analisi che coglie esattamente il non-sense che è alla base di una modalità di fare musica sempre più comune, diffusa quanto sempre più inutile. La musica ridotta a merce, prodotto di consumo il cui successo non è dato dai suoi contenuti originali ed innovativi quanto piuttosto dalla sua capacità di omologarsi a stili, simboli e segni perfettamente riconoscibili in quanto già noti.
“…L’hipster, così fragilmente alla ricerca della propria autenticità e così in dubbio sulla propria autenticità, si rassicura acquistando e facendo sfoggio di prodotti autentici. L’hipster non a caso è la maggiore espressione culturale della generazione degli anni zero, perché questa generazione cresce in un’insicurezza mai provata prima dalle generazioni precedenti. Precaria nel lavoro, digitalizzata nelle relazioni sociali, questa generazione ha bisogno, anche solo simbolicamente, di ritrovare l’autenticità delle cose.”.
DOG SAVE THE QUEEN (Michele Mancaniello per RootsIsland)