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Theo Ceccaldi Trio/Truffaz- Marcotulli @Auditorium Parco della Musica, Roma – 10.06.14

Le onde lambiscono la riva e la barca sparisce al di la della baia; nel silenzio. E’ ora di tornare. Riprendere la via di casa. E dimenticare.

Ma si dimentica soltanto se si ha la capacità di guardare avanti ed il coraggio di abbandonare. E stasera se qualcuno ha dimostrato di saperlo fare qualcun’altro mi ha lasciato, invece, di tutt’altro avviso. Mi è capitato recentemente, al concerto di Agnes Obel, di rimanere sorpreso dalla bravura dell’artista che ne apriva lo spettacolo, Melanie De Biasio. Oggi al Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, è successo nuovamente, con il sorprendente trio guidato da Theo Ceccaldi che si è esibito prima del duo Marcotulli/Truffaz.

Seguo Truffaz da tanto, da quando mi innamorai della copertina di un suo disco, “Mantis”, edito da BlueNote; il disco è del 2001 ed oggi, a distanza di 13 anni, riesco  per la prima volta ad ascoltare Truffaz dal vivo; eppure, non so perchè, ma ancora prima di assistere allo spettacolo qualcosa mi diceva che avrei finito per apprezzare di più la performance di Ceccaldi& Co. che quella dello smilzo e affermato trombettista d’oltralpe.

Il trio di Ceccaldi (anche loro francesi) presenta per la prima volta a Roma il disco “Carrousel”. Sono giovanissimi e la formazione è atipica per una serata “jazz”: violino (Theo Ceccaldi), violoncello (Valentin Ceccaldi) e chitarra elettrica e classica (Guillame Aknine). In effetti di jazz non c’è molto. Il concerto parte subito accellerato, i musicisti sembrano già caldi e Ceccaldi si agita come fosse tarantolato. La musica dei tre cattura, miscelando elementi classici a strutture e scale colte e quanto mai coraggiose. Sonorità fumose e crepuscolari, zappiane quanto acidamente sghembe come quelle dei Sonic-Youth, rocambolescamente lanciate in lunghissime, incalzanti e tesissime fughe classiche.

Le composizioni di Ceccaldi sono storte e distorte: come la vita e le emozioni, sembra volerci dire lo stesso musicista contorcendosi spasmodicamente sul violino. Chi vive seguendo una linea retta, comoda e melodica non può che nascondere a se stesso la propria paura dell’ignoto, del profondo vuoto dal quale emergono le emozioni. E per paura, negarsele. Fuggendo.

Il timbro, l’energia, lo spessore tecnico, ma soprattutto l’estro e la capacità di osare, di spingersi oltre di Ceccaldi sembra impensabile possano esser concentrati in un ometto piccolo e di una timidezza estrema, della quale il musicista dimostra di esserne afflitto nelle poche, fragili e sommesse parole di ringraziamento che pronuncia. Avrei voluto comprare il disco, a fine concerto. Ma non l’ho trovato, peccato.

 

Giusto il tempo di togliere i pedali di Aknine e sul palco compaiono Erik Truffaz e Rita Marcotulli. La performance inizia bene con Truffaz che suona la tromba direttamente nella coda del piano, facendo vibrare le corde che, adeguatamente “effettate”, risuonano come fossero cori di voci. Se Truffaz suona note lunghe e rarefatte, filtrate da echi e riverberi, e disegna nell’aria architetture medio orientali, Rita Marcotulli suona e fa suonare il pianoforte in maniera molto fisica: lo percuote, lo pizzica, lo rende muto. A tratti lo usa come fosse una percussione a volte lo fa cantare come una chitarra o un contrabbasso.

Ciò nonostante, ossia la bravura dei due, lo spettacolo non coinvolge: sembra tirato per i capelli. Forzato. I due alternano composizioni dell’uno e dell’altra: le prime – esclusa la componente “tecnologica” (delay ed echi), linguaggio che oramai possiamo considerare tutt’altro che nuovo – cantano troppo “in memoria” di Chet Baker; le altre, interessanti melodicamente ma, a mio avviso, nulla di più.

(Michele Mancaniello per Roots Island)