Una premessa è doverosa. Scrivo per il puro piacere di farlo, di raccontare, attraverso la mia personale sensibilità, quello che vedo, si tratti di una performance di un artista o della rassegna che la ospita. Sulla nuova edizione di Roma Incontra il Mondo, avevo scritto qualche giorno fa con toni entusiastici vista una line-up, che seppur con nomi “insoliti” rispetto ai palinsesti degli anni passati, proponeva una selezione di artisti di tutto rispetto. Ciò detto, l’efficacia della rassegna dopo l’evidente cambio nell’organizzazione e gestione, andava verificata sul posto. Cosa che ho fatto, ieri, in occasione del concerto dei Timber Timbre. Prima di loro si esibivano Ilaria Graziano e Francesco Forni, ma sono arrivato sul posto giusto in tempo per sentirli salutare il pubblico e vederli, quindi, andar via. Pochi minuti e sul palco salgono i protagonisti della serata. Taylor Kirk (v/g), Simon Trottier (g), Mathieu Charbonneau (k) and Olivier Fairfield (d), ossia Timber Timbre.
Mi colpisce da subito la disposizione sul palco, che non prevede, come è abitudine, la presenza del vocalist a centro palco: Taylor Kirk è sul lato sinistro, un pò, a mio avviso, a voler sancire la mancanza di una centralità, di una leadership all’interno della band un pò, al contrario, per poter da quella prospettiva riuscire a seguire e dirigere i compagni. Con Timber Timbre niente è come sembra e ciò che appare scontato, improvvisamente, diventa indecifrabile. “Grand Canyon”, il primo brano, tratto dal nuovo lavoro Hot Dreams, ci introduce fin da subito in una atmosfera decisamente particolare, lenta ed onirica quanto capace di aperture improvvise su spazi ed echi melodici vagamente folk. Di fatto, pur non essendolo, i Timber Timbre sono catalogati come gruppo folk: che, come dire, equivale a dire che i Calexico sono una orchestra di “mariachi”. Ed infatti con il secondo brano “Beat the drum slowly”, anch’esso nel nuovo lavoro, è chiaro quanto una tale definizione, non solo sia mortificante udita la capacità espressiva dei quattro, quanto sia del tutto inappropriata. Il brano sembra una ballata western fino al refrain, dove, lontani da qualsiasi scelta melodica, i quattro si lanciano al rallentatore (slowly, appunto) in un ritornello che suona come una marcia funebre, con tanto di campana a morto, un rullante riverberato e ossessivo e acidissimi intrecci delle due elettriche sul palco. Con “Bring me simply men” sembra di venir catapultati in un film dei fratelli Coehn o di Quentin Tarantino; il “tremolo” delle chitarre ci porta negli anni ’50 ed altrettanto fa l’organo di “Lonesome Hunter”, il successivo brano. I quattro dimostrano una grande esperienza live, ottima padronanza tecnica ed un gusto eccezionale nella definizione e scelta dei suoni e dell’effettistica. Batteria compresa, che minimale al massimo – grancassa, rullante, timpano, charleston e piatto, suona carica di effetti, controllati attraverso un mixerino gestito dallo stesso Fairfield. “Until the night is over”, quindi la bellissima “Curtains?!” del precedente album Creep on Creepin’on con chitarra e organo che marciano insieme sul battere e un potentissimo sincopato drumming degno del miglior ?uestlove (The Roots).
La forza dei quattro canadesi è tutta li: in quegli arrangiamenti che, miscelando con eccezionale gusto generi e stili differenti, danno vita ad mix assolutamente originale e pieno di groove, potente anche quando il tempo è cosi lento che tra una battuta e l’altra o tra un colpo sul charleston ed il successivo, pensi che il brano sia finito. Trip-hop, blues, psichedelia, rock ‘n roll, rythm’n'blues, surf, si…anche folk, il tutto dominato dalla voce pazzesca di Kirk, crooner quanto Cash, sensuale quanto Presley, Morrison e Jagger, rude quanto Cave e folle quanto Tricky. “Bad Ritual” e “Black Water”, due gioielli, bellissime più delle versioni in studio quindi “This love commotion” disperata e romantica, come del resto è tutta la discografia della band. “Hot Dreams” primo singolo del nuovo album, morbida e sensuale come il crooning di Kirk e i suadenti accordi di piano elettrico sostenuti da un lentissimo drumming: peccato per il sax della versione studio, sostituito dal vivo dal riff di chitarra del bravissimo Trottier che, oltre a suonare con estremo garbo, sembra si diverta a farlo come fosse la sua prima volta. Il finale di Hot Dreams è lacerante, con la seconda metà del tema che, alternativamente, battuta dopo battuta – si ripete ossessivamente ad ogni giro una volta in più – a simulare la forza e la dolcezza degli attimi che precedono l’orgasmo. “The new Tomorrow” alla quale segue una breve pausa, che terminata vede Kirk tornare solo sul palco e, stavolta davvero come un cantante folk, intonare Magic arrow”, dal precedente album. Ripartono tutti insieme con “Woman”, acidissima, caratterizzata da suoni scurissimi e ritmica ossessiva. “Run from me”, una lentissima ballata, una ninna-nanna, delicata canzone d’amore come se ne scrivevano una volta, con un finalone epico e cinematografico che neanche Morricone o Piccioni avrebbero reso meglio: la batteria favolosamente sisxties e le chitarre che sembrano cantare come un coro. “Creep on creepin’on ” e “Lay down in the tall grass” chiudono un concerto di qualità: originale e senza fronzoli. La musica che suona. Niente parrucche, paillettes e lustrini. Solo, il grande mistero, romantico e sofferto, per la vita della quale, pur non capendone il significato, ne percepisci il suono. Il concerto finisce: Kirl e Charbonneau lasciano il palco a Trottier e Fairfield, che armeggiando su pedali e mixer ci abbandonano, sembrano volerci dire, a quell’inspiegabile rumore di fondo che è l’esistenza con il suo mistero meraviglioso.
Il concerto era a sottoscrizione. Forse per incentivare la presenza del pubblico, vista la concomitanza con non so quale partita dei mondiali. Non posso però per questo non chiudere esternando le mie perplessità per l’organizzazione dello spazio, che, al di la di tutte le belle iniziative promosse sul sito e sui social (con parole come chef, food, yoga, area-bimbi, aperitivi…parole che, insieme a terrazzo, vanno molto di moda in quest’estate romana) si limita, di fatto, a proporci quattro baracchini dove indurci a “consumare” birra e pizze surgelate. Nessun libro o vinile. Mi chiedo se l’intera rassegna non sia funzionale a questo scopo. Spero di sbagliarmi.
(Michele Mancaniello per RootsIsland)